Intervista a Matteo Fini, “Mio Fratello Guè” spiegato

Il 4 ottobre è stato pubblicato “Mio fratello Guè: Storie di rap, di rapper, d’Italia” del prof. Matteo Fini. Forse non lo sapete ma Matteo è in questo nostro caro amato mondo da davvero molto tempo ed è per questo che, dopo esser stato catturato dalle storie personali che ci racconta nel libro, ho deciso di fargli alcune domande.

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1.Oltre per spiegarci che purtroppo Guè non è tuo fratello (per capire meglio andate a leggere il libro) perché hai deciso di scrivere “Mio fratello Guè”?

Ti regalo un aneddoto. Quando è uscito Vero di Guè avevo scritto un articolo dal titolo “Mio Fratello Guè: stesso cognome, diverse battaglie” per la rubrica che avevo al tempo sull’HuffingtonPost. Il mio capo di allora non volle pubblicare l’articolo e, oltre a incazzarmi, pensai che questo potesse essere l’incipit di un mio futuro libro sul rap italiano, che comunque i miei lettori stavano cominciando a chiedermi. E così è stato.

2.Le tue storie sono per ovvie ragioni collegate dall’aver vissuto a Milano. Io vivo in Sardegna e credo che certe esperienze che racconti nel libro neanche cercandole potrei riuscire a trovarle data la zona geografica. Quanto è stata importante per te Milano e se credi che nel 2021 (ormai ’22) per un ragazzino sia ancora possibile vivere certe situazioni.

Sicuramente essere nato a Milano è stata una gran fortuna perché negli anni si è un po’ trasformata nella capitale del rap. Però è anche vero che sono cambiate le abitudini. Noi eravamo di Milano però non essendoci internet, YouTube, Amazon e Spotify le “cose” dovevi andare comunque a cercartele. Nei negozi, nelle piazze, nelle città. Eravamo di Milano ma passavamo la vita sui treni per andare agli eventi, a Torino, a Bologna, a Roma, in riviera, in Svizzera. Chiaramente la Sardegna è un caso un po’ al limite lo capisco, ma comunque credo che le comodità di oggi rallentino un po’ la voglia di andare a scoprirsi le cose per strada.

3.Ho notato come prima fosse molto più facile instaurare dei rapporti con il proprio rapper preferito, complice il fatto che il rap fosse meno sdoganato rendendo l’interazione coi fan più gestibile. Oggi ad esempio abbiamo Instagram, che virtualmente accorcia le distanze ed è un continuo susseguirsi di interazioni (like, commenti, condivisioni). Secondo te questo stile di comunicazione è stato un passo avanti per l’interazione coi propri fan? In generale secondo il tuo punto di vista come credi che un artista dovrebbe approcciarsi coi social nei confronti del suo pubblico?

Secondo me i social, paradossalmente, hanno allontanato il fan dall’artista. Ovvio che se scrivi a, chessò, Emis Killa su Instagram c’è la possibilità che lui ti risponda e tu ti senti figo. Ma non ti riconoscerà mai. Non ti “sentirà”. È una percezione, ma non è così. Se lo incontri a una festa, ci parli, ti confronti, è tutta un’altra cosa. Io poi son dell’idea che gli artisti, in tutti i campi non solo i rapper o i cantanti, debbano esprimersi con la loro arte e non intrattenendo i fan fuori contesto.

4.Se oggi parliamo di Golden Age come riferimento prendiamo tutti l’annata del 2016. Nel libro ci parli di una Golden Age precedente del 1996. Cosa ti ricordi di quel periodo e quali differenze o somiglianze ci ritrovi in quest’ultima.

In “Mio Fratello Gue’” faccio un parallelismo tra le ondate del 1996 e del 2016 riprendendo un vecchio articolo che avevo scritto per Hano Magazine dal titolo “E se Sfera & Co. fossero la nuova Area Cronica?” analizzando i due fenomeni nel loro tempo e le loro analogie e contraddizioni.Ti dico solo che per quell’articolo presi un sacco di insulti perché “ovviamente” non ci si può permettere di paragonare il nuovo al vecchio. Poi però intervenne Tormento a darmi ragione e tutti muti.

5.Hai visto un po’ tutti, non solo artisti, non solo artisti che stanno avendo il loro successo adesso, ma veramente un po’ tutti. Quando oggi apri il telefono e vedi che quelle persone sono al top della loro carriera, qualcuno con dei figli, altri che si sono ritirati o passati ad altri aspetti di questo mondo come ti senti?

Guarda se hai letto il libro hai sicuramente visto come in realtà io sia stato un ragazzino timido, un adolescente sfigato e un adulto rispettoso degli spazi degli artisti, per cui ancora oggi mi emoziono un po’ quando passo del tempo con dei rapper che sono stati prima dei miei miti, come ad esempio Grido e Tormento che ormai conosco da tanti anni, ma per dirti anche proprio pochi giorni fa ho avuto la fortuna di conoscere Strano dei Gemelli DiVersi (di cui ero strafan…. e lo dico senza paure) poiché eravamo ospiti allo stesso evento ed era incredibile perché ormai sono grande e ho il mio ruolo in questa cosa del rap per cui anche lui già conosceva me e mi sembrava surreale!

Per quanto riguarda le nuove leve invece, per farti qualche nome, sono molto legato a Maruego perché quando è esploso nel 2014 sono stato il primo ad andarlo a pescare e infatti ancora oggi quando ci becchiamo racconta a tutti che la sua prima, primissima intervista, gliel’ho fatta io. E poi mi diverte ricordare sempre come sono andato a recuperare Ernia dopo che era scappato a Londra a seguito del fallimento dell’esperimento “Troupe d’Elite” e non sapeva ancora se ci fosse posto per lui nel rapgame, e se pensi dov’è ora…. tutte cose che racconto nel libro con un bel po’ di dettagli divertenti.

6.Quando un rapper aveva più bisogno del proprio pubblico questo quasi ferocemente iniziava ad attaccarlo, più tardi questo atteggiamento lo ricollegheremo alla sindrome di non sei più quello di Mi Fist, un modo di fare che riscontro ancora oggi, secondo te perché?

C’è sempre stato, e sempre ci sarà. Tutti rimaniamo legati al momento in cui ci innamoriamo di un rapper. E vorremmo che lui rimanesse quella roba lì. Forse perché in realtà siamo noi che vorremmo rimanere quella roba lì. Non crescere, non cambiare. Ma se ci pensi succede in tutte le cose, non solo nella musica.

7.Oltre ad essere un prof. sei anche un “giornalista rap”, sapresti darmi da dietro le quinte di questo settore una definizione e dirmi secondo te per quali meriti lo si diventa.

Innanzitutto, ti do uno scoop: non esistono giornalisti del rap. Se non ci credi vai sul sito dell’Ordine dei Giornalisti e cerca uno qualsiasi di questi giornalistoni che pontificano… ne troverai pochi, ti bastano le dita di una mano e manco tutte. Non basta avere una passione, non basta pensare di sapere scrivere, non basta frequentare, il giornalismo sarebbe, o dovrebbe essere, un lavoro serio e vero. In Italia non è più così per tanti motivi. Nel nostro ambiente poi si preferisce dare budget e soldi a chi fa views piuttosto che a chi fa cultura o informazione con coscienza e background. Però poi succede che i rapper vanno a Sanremo e i fantomatici “giornalisti del rap” no e sai perché? Perché per entrare in Sala Stampa a Sanremo devi essere giornalista davvero, con titoli e tesserino. Così ci ritroviamo in 2 a difendere Junior Cally o Achille Lauro e la nostra bellissima cultura, ancora bistrattata dalla stampa nazionalpopolare.

Per cui il consiglio che ti do se vuoi fare il giornalista del rap è non farlo. Anche perché il giornalismo, tout court non solo il nostro di settore, è nel baratro e ha finito i soldi.

8.Molti non lo sanno ma fra magazine, pagine rap ed in generale tutto il sistema comunicativo c’è una sorta di competizione. Secondo te qual è il miglior modo per coesistere in questo mondo cercando di tenere una linea editoriale pulita, il più possibile imparziale, che resti interessante ed attendibile.

Innanzitutto, la stampa di settore dovrebbe smetterla di essere al servizio dei rapper e delle Case Discografiche. Oramai non si capisce più “chi paga chi”. Magazine che fanno da manager a rapper, Major che usano Magazine per promuovere i loro rapper, rapper che si fanno fare i dischi dagli sponsor, giornalisti che fanno da ufficio stampa ai rapper. Questo si chiama marketing, non giornalismo. Il fatto è che il pubblico, spesso di giovanissimi, non lo sa e si beve tutto. In “Mio Fratello Guè’” spiego bene anche questa parte, anche se è sostanzialmente un libro d’amore qualche puntino andava messo.

9.”Mio Fratello Guè” ha sicuramente bellissime storie, mi sono piaciute tutte, ma dato che stai in questo settore da molto son sicuro che ne hai qualcuna meno bella o che magari non avresti proprio voluto vedere, ce ne racconti una?

Guarda, quando son passato dall’altra parte e ho cominciato a lavorare col rap, ho sempre pensato che mi andasse di dare spazio e voce alle cose che mi piacevano, alle curiosità che volevo togliermi e ai bei racconti. Non ho mai voluto raccontare cosa non mi piaceva, ma ho sempre preferito portare al mio lettore le cose belle. Amici e colleghi un po’ mi sfottono per questo perché dicono che non faccio una critica mai. Ed è vero, ma se una cosa non mi piace preferisco non parlarne.

Per cui se ti va ti racconto invece due cose che non mi sono riuscite e per cui ho un pizzico di rammarico. La prima è: vedo Boro Boro alle audizioni di XFactor che canta Rapper Gamberetti e, nonostante Fedez lo blasti dal tavolo dei giudici, a me il ragazzo colpisce e decido di contattarlo subito. Ale Puntoebbasta, il suo manager, mi dice “si tranquillo ti faccio fare l’intervista”, poi il tempo passa, Boro esplode e io perdo il vantaggio che avevo sul resto della stampa e alla fine l’intervista non la faremo mai. Ad Ale, col quale nel frattempo siamo diventati amici, ancora oggi ogni tanto per scherzare glielo rinfaccio. La seconda che ti voglio raccontare riguarda Ghali. Se hai letto “Mio Fratello Gue’” sai che io seguo Ghali davvero da tanto, perché ne avevo intuito il potenziale anche quando per tutti era il peggio del peggio del peggio del rap italiano. I tempi di Fresh Boy per intenderci. Va beh poi Ghali diventa Ghali e a inizio 2020 esce il suo album DNA. Per l’occasione vengo invitato al release party e inseguito dal suo ufficio stampa con cui concordiamo un’intervista video appena possibile. Arriva il Covid e salta tutto. Mi spiace perché avevo davvero tante cose da discutere una volta per tutte col rapper di Baggio, che nemmeno sa che frequentavo casa sua e il suo coinquilino ma che non ci siamo mai incrociati perché quando passavo lui dormiva sempre nella stanza a fianco! E poi sai chi era il suo coinquilino? Questa è una storia che ti racconto un’altra volta…

10.Dopo l’uscita del tuo libro “Mio fratello Guè” Cosimo ha deciso di levare dal suo nome d’arte Pequeno, pura coincidenza o avevi già qualche presentimento?

Questa cosa mi ha fatto davvero volare. Allora, si sapeva che a Guè erano anni che consigliavano di togliere Pequeno dal nome, ma non c’entra niente con la scelta mia. Anzi ti dirò la verità, in origine il libro si sarebbe dovuto chiamare “Mio Fratello Gue’ Pequeno” ma poi ho scoperto che “Gue’ Pequeno” è un marchio registrato e quindi non potevo usarlo senza autorizzazione. Così ho tolto “Pequeno”. Il fatto che davvero pochi giorni dopo l’uscita del libro lo abbia fatto anche lui mi ha fatto sorridere. Ricordo che il buon Tavera di Boh Magazine mi ha svegliato nella notte per dirmelo. È solo l’ennesima “storia” che avvicina in qualche modo questi due Mr. Fini e se poi fosse che questa piccola coincidenza mi avesse fatto vendere qualche copia in più vorrà dire che alla prima occasione gli offrirò da bere!

Intervista di Gabriele Coppola.

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Tags: guè

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