Fedez: quanto costa prendere posizione?

L’ultima volta che ascoltai per intero un album di Fedez correva l’anno 2013: era da poco uscito “Sig. Brainwash – L’arte di accontentare”, e per la prima volta restai profondamente delusa. Avevo amato i suoi progetti precedenti, ma ormai dovevo accettarlo: Fedez aveva cambiato rotta, e così pian piano smisi di ascoltarlo. Nel corso degli anni, però, è sempre rimasta una stima nei confronti della sua persona: maturo, sincero e sensibile, qualità difficili da trovare soprattutto nei rapper, sempre impegnati a mostrare agli ascoltatori quanto siano forti e strafottenti.


Fedez, protagonista assoluto del concertone del primo maggio, ha cominciato il suo discorso con un disclaimer: i vertici di Rai 3 gli avevano chiesto di cambiare parte del suo intervento, ritenuto “inopportuno”; di omettere quindi nomi, partiti, ed edulcorare l’intero contenuto. Alla fine vince lui, e sul palco dice tutto quello che gli pare, fregandosene delle possibili polemiche e ritorsioni. È un uomo bianco, etero, ricco, e decide di utilizzare la sua influenza per parlare e schierarsi a favore del ddl Zan e della comunità LGBTQ+: la questione, ricordiamo, non lo coinvolge direttamente, eppure lotta, prende posizione.


Qualcuno ha scritto che ha fatto la cosa più hip-hop degli ultimi 15 anni, e per quanto sia un’affermazione discutibile non posso che in parte concordare: penso alla scena rap italiana, alla stragrande maggioranza dei rapper che non prende mai posizione perché ha paura di ricevere dissensi. Penso ai rapper che utilizzano le Instagram stories per dare a tizio del “fro*io”, “il motivo per cui la scena italiana non viene presa sul serio”.

Penso all’Italia, alle polemiche degli ultimi giorni, a quanto la televisione non sia altro che lo specchio della società di cui facciamo parte: mi chiedo perché faccia scalpore Fedez che lotta contro le discriminazioni e non pseudo-politici che ancora oggi parlano di omosessuali come di un pericolo; mi domando per quale ragione faccia più discutere un rapper che si schiera a favore di diritti e non pseudo-comici che affermano che di fronte a termini come “ne*ro” o “ri*hione” bisogna farsi una risata. Sembra quasi che il problema sia il discorso, e non il tentativo di censura del discorso stesso. E poi parliamo tanto di libertà, ma di chi? Di cosa? La libertà di censurare? La libertà di discriminare?

Qualche anno fa Tullio De Mauro scriveva che “le parole non sono tutto, ma l’odio non sa fare a meno delle parole”: ogni parola non è semplicemente una parola, ma cela dietro di sé complessi meccanismi sociali, ed è per questo motivo che io la risata non me la sono mai fatta quando qualcuno mi ha derisa per quel che sono. È per questo motivo che non ho mai riso quando dai giornali ho appreso di aggressioni, cominciate tutte da una “semplice” parola: “nero”, “fro*io”, “lesbica”. È per questo motivo che ho paura quando la censura di un discorso passa inosservata.

Ed è per questo motivo, infine, che ho ammirato il modo in cui ieri ha agito Fedez: ha deciso di utilizzare le parole per fare del bene, ha scelto con cura ciò che doveva dire, e lo ha fatto senza alcun timore. Che questo polverone mediatico possa davvero far riflettere, e farci comprendere che è così che dovremmo reagire. Sempre.

Articolo di Giordana Fichera.

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